Di seguito riportiamo l’articolo del Presidente del CART Fulvio Tagliagambe. 

(Per leggere la rivista completa seguite questo link: Gruppo omogeneità e differenze_2024.vol.10)

L’Io inconsapevole

Abstract
I modelli culturali dominanti costituiscono un setting che colloca l’individuo in
un ambito caratterizzato e specifico di quella data epoca in quel determinato
periodo storico. Lo spazio e il tempo, il dove e il quando, sono le coordinate
entro cui l’individuo si muove e i valori che contraddistinguono quell’arco di
spazio e tempo formano il clima che lo avvolge, come l’aria che respira. Il
contesto politico e sociale, gli indirizzi della tecnologia, i prodotti culturali e i
valori di ogni epoca costituiscono quindi la matrice che sottende il pensiero
dell’individuo, la materia prima con cui si organizza e si dispone alle modalità
di essere e al copione sociale in cui potersi riconoscere e appartenere al proprio
tempo. L’ “Obsolescenza programmata” degli oggetti tecnologici della nostra
epoca marca la dittatura di un presente sconnesso dal passato e dal futuro e
ingaggia l’io in un continuo aggiornamento di gesti e procedure sempre più
accelerati, in una contrazione del senso del tempo, chiuso nella velocità della
dinamica e delle sequenze stimolo-risposta. In questo modo anche il pensiero
diventa azione, privato della sua naturale dimensione di latenza, di spazio e
tempo di riflessione che antecede l’azione. L’ipertrofia dell’Io e l’ipotrofia del Sé
e dell’area del preconscio sono alla base dello sviluppo delle patologie del
narcisismo, della dipendenza e del proliferare dei sintomi a base ansiosa che
caratterizzano la nostra epoca.
Parole chiave: ipertrofia, io sé, dipendenza, emancipazione, contratto
narcisistico, soggettivazione

Abstract
The dominant cultural models constitute a setting that places the individual in
a characteristic and specific context of that given era and specific historical
period. Space and time, where and when, are the coordinates within which the
individual moves. The values that distinguish that span of space and time form
the climate that envelops it, like the air it breathes.
The political and social context, the directions of technology, the cultural
products and the values of each epoch therefore constitute the matrix that
underlies the individual’s thought. They are the raw material with which one
organizes and disposes oneself to the ways of being. They constitute the social
script in which one can recognize oneself and feel the belonging to one’s time.
The “planned obsolescience” of the technological objects of our era marks the
dictatorship of a present disconnected from the past and the future. The ego is
thus engaged in a continuous updating of increasingly accelerated gestures and
procedures, with a contracted sense of time. The individual finds himself
engaged in a continuous updating of technology, imprisoned in the speed of this
dynamic and in the stimulus-response sequences. Thought also becomes action,
deprived of its natural dimension of latency, of a space and time of reflection
that precedes action.
The hypertrophy of the ego, the hypotrophy of the self and of the preconscious
area constitute the basis for the development of the pathologies of narcissism,
addiction and the proliferation of anxiety-based symptoms that characterize
our age.
Keywords: hypertrophy, ego, hypertrophy, self, addiction, empowerment,
narcissistic contract, subjectivation

“Considerate la vostra semenza: fatti non
foste a viver come bruti, ma per seguir
virtute e canoscenza.”

Dante Alighieri XXVI canto dell’Inferno, v. 119
L’esortazione con la quale l’Ulisse di Dante si rivolge ai compagni, confusi e
stremati, per persuaderli a proseguire il viaggio condensa in poche righe e con
straordinaria efficacia, il tema che ha dato spunto a questa monografia.
L’Ulisse di questo secondo millennio, espropriato del senso di sé, patisce
l’alienazione di una conoscenza senza virtù, di un’individualità deformata e
compressa nel qui e ora di uno spazio-tempo collassato nell’istantaneità del
momento, deragliato dalla continuità in cui il tempo diventa storia, racconto
che ci congiunge al prossimo e ci colloca in un senso di appartenenza e
continuità alla specie e all’ambiente.
Siamo fatti di questa materia prima, sospinti da un ineludibile bisogno di
identità. Il senso di esistere, di esserci, contiene l’essenza che ci caratterizza.
La spinta che dall’indistinto, già nella vita intrauterina, porta alla nascita e
domina i processi di sviluppo e individuazione è il motore della nostra
esistenza. Ma esserci significa anche essere con, dove le potenti motivazioni del
vivere che danno impulso all’individuazione ci muovono, al contempo, verso
l’altro, nell’ambito di un senso di appartenenza altrettanto ineludibile.
Un’appartenenza che evolve nel momento in cui contempla il valore delle
differenze e, coniugata con i bisogni di individuazione, rifugge dalle lusinghe
della dipendenza, dell’omologazione e rende ogni individuo unico nella sua
originalità.
Il senso di comunanza permette di disporre della materia prima con cui
ciascuno può costruire la propria unicità, forgiandola secondo le proprie
inclinazioni e il proprio estro.
Ulisse è sospinto tanto dal desiderio di oltrepassare i propri limiti e confini,
quanto dal ricongiungersi con i luoghi e le persone ai quali e alle quali sente di
appartenere e da cui torna con nuova consapevolezza.
Ognuno ha in sé questa scansione, in cui il dove e il quando definiscono le
coordinate spazio-temporali che sono intrinsecamente connesse al senso di
identità e al desiderio di oltrepassarne le frontiere.
L’odissea nello spazio, magari a bordo di una DeLorean DMC-12 (1) che ci
consenta il ritorno al futuro, esprime la “Semenza” che contraddistingue
l’essere umano, nella sua continua necessità di evolversi, di proiettarsi verso
nuovi traguardi.
Se questo è ciò che ha permesso all’umanità di progredire nella sua storia
millenaria non possiamo, però, esimerci dal considerare che non vi può essere
evoluzione senza che “Virtute e canoscenza” siano dialetticamente inter
connesse nel governare consapevolmente la rotta intrapresa.
L’etica dantesca si fonda su questo principio, che pone la conoscenza come un
valore, nel momento in cui è sotto l’egida della libertà e dell’amore, in un
percorso virtuoso capace di domare gli impulsi primordiali più distruttivi.
La conoscenza svincolata da questi principi, dettata da un Io inconsapevole e
presuntuoso, avido e superbo, sfrenato e senza limiti, esplode nella sua
dimensione più diabolica e distruttiva.
Come l’apprendista stregone nella storia di Goethe, l’Uomo ha avviato un
processo che gli è scappato di mano, ha trasformato la scopa in un servitore che
prende l’acqua per riempire la vasca da bagno, ma non sa la formula per farla
fermare e si sta allagando la casa.
I ritmi del consumo e della produzione dettano i tempi con logiche estranee ai
veri bisogni della persona, ma appartenenti a sistemi sempre più lontani,
incomprensibili e complessi.
È il tempo della produzione senza limiti che svuota tutto, che inquina, distrugge
e, con lo spettro dell’emarginazione, sembra senza alternative: o ne fai parte o
sei fuori.
In una logica che è quella di uno sviluppo senza fine, dove i profitti, le borse
possono solo crescere all’infinito, oppure crollano, diviene inarrestabile la
necessità del sistema di creare continui bisogni per garantirsi continui consumi.
L’Io, sconnesso dalla bussola del Sé, scisso dal rimando interno dei suoi
autentici bisogni, si aliena in un rassegnato senso di impotenza o sposa
l’ambiguità di un accattivante illusione di onnipotenza, riflettendosi negli
stupefacenti effetti speciali di un mondo virtuale senza virtù.
Si droga del “No-limits” cavalcando un tempo che non ha memoria, dimentico
del suo essere coscienza individuale e limitata di un Sé eterno e infinito che gli
preesiste e da cui non può prescindere, senza alienarsi.
The Truman Show (2)
Il tempo senza memoria diventa così oblio, alienazione, coscienza
inconsapevole, una fiction destinata ad infrangersi nel fondale che rivela
l’imbroglio della vita di Truman Burbank, il protagonista del film, che, solo nel
ribellarsi al reality show in cui era confinato si riapproprierà della sua autentica
umanità.
Quel fondale contro cui andrà a sbattere la sua barca, esposta a una tempesta
prefabbricata, segna il bisogno di incontrare i limiti che la realtà ci impone e
senza i quali il campo da gioco della nostra vita, dalla nascita alla morte, perde
l’essenza di ciò che ci motiva al vivere.
Truman è disposto a morire pur di uscire dalla finzione, con buona pace dei
telespettatori, subito alla ricerca di un nuovo e appassionante reality in cui
alienarsi in un’altra storia fuori dalla Storia. Questo film, sul tema della
autenticità, è del 1998.
Rispetto ad allora la televisione italiana, seguendo le tendenze già in atto da un
paio di decenni negli Stati Uniti, è passata dai vecchi sceneggiati alle fiction e ai
reality. Il confine tra realtà e finzione, in questo modo è sempre meno
percepibile, coinvolgendo gli spettatori in un’area di ambiguità che riproduce
una realtà irreale. La fine del Truman Show che abbraccia le vicende artefatte
del protagonista fin dalla sua nascita, fidelizzando per decenni i telespettatori,
non lascia loro alcuno spazio per vivere la vita reale, sfuggita dalla febbre di
un’immediata ricerca di un nuovo reality.

La coscienza
Il premio Nobel Gerald Edelman, biologo e neuroscienziato, ci ha proposto una
teoria della coscienza di cui sottolinea gli aspetti dinamici connessi all’adatta
mento.
L’autore sostiene che la coscienza si esprima attraverso un racconto che
assembla elementi percettivi, sensoriali, ricordi, pensieri, fornendo, in tal
modo, la propria interpretazione della realtà. L’aspetto adattativo e dinamico
pone la coscienza in continuità con corpo e ambiente. Gli stimoli ambientali e
quelli interni vengono organizzati psichicamente sotto forma di racconto.
Ambiente, corpo (cervello) e mente sono in posizione di continuo scambio, alla
ricerca di un adattamento che è un equilibrio dinamico.
Realtà e immaginazione si confondono l’una nell’altra, in quella che pure ci
appare come la visione più viva e vera di cui disponiamo e attraverso la quale
rappresentiamo noi stessi e la realtà. Se il corpo è la prima realtà che incontra la
nostra psiche, nel sistema della coscienza ritroviamo un’oggettività soggettivata
da assetti inconsci che selezionano la nostra visione, direzio nandola verso
potenziali intenzioni di azione connesse ai nostri bisogni nascosti alla coscienza,
eppure determinanti per una vera consapevolezza.
Il racconto che ne deriva in questo senso è uno dei tanti racconti possibili:
quello che più è emerso rispetto agli altri, sospinto da motivazioni inconsce. La
coscienza chiusa nelle logiche individualistiche dell’Io egocentrico, nell’assolu
tismo di un sistema del pensiero computazionale, costruisce verità cangianti
che, senza il riconoscimento della propria soggettività e l’ascolto lungimirante
del Sé, sono forme ingannevoli, senza sostanza, verosimili in un’ambiguità
equivoca.
Christof, il regista del Truman Show, trova quindi un corrispettivo dentro di noi
nel momento in cui la coscienza, quanto di più rappresentativo del nostro Io,
costruisce una fiction, o se preferite un reality che ci piace pensare come realtà.
Ma il senso della Storia in cui si inserisce il racconto della nostra vita, nella
piena coscienza di viverla, ci porta alla consapevolezza della nostra soggettività,
non occultata, ma valorizzata.
La libera soggettività ci consente allora di esprimerci compiutamente per
contribuire, con la nostra originalità, all’insieme di cui facciamo parte.
È l’insieme che scrive la Storia e, nel tramandarla, ci permette di conservarne la
memoria, di dare significato all’esperienza personale e sociale del vivere e, a
fronte di un’illusoria autarchia, di vivere compiutamente.
Come in un’ideale staffetta, ogni generazione trasmette il testimone dei valori,
della cultura, del progresso alle generazioni successive.
In questo processo si alternano evoluzione e sviluppo, non esenti da spinte
regressive, in un andamento non lineare e non privo di contraddizioni e
conflitti.
I modelli culturali dominanti costituiscono un setting che colloca l’individuo in
un ambito caratterizzato e specifico di quella data epoca, in quel determinato
periodo storico. Lo spazio e il tempo, il dove e il quando, sono le coordinate
entro cui l’individuo si muove e i valori che contraddistinguono quell’arco di
spazio e tempo formano il clima che lo avvolge, come l’aria che respira.
Il contesto politico e sociale, gli indirizzi della tecnologia, i prodotti culturali e i
valori di ogni epoca costituiscono quindi la matrice che sottende il pensiero
dell’individuo, fornendogli, come in un grande serbatoio comune, oggetti di
relazione e di scambio in cui potersi riconoscere e appartenere al proprio
tempo.
Ogni generazione ha la propria musica, i propri film, i propri libri di riferimento
e si identifica in personaggi icona che rappresentano valori e stili di vita in cui
riconoscersi e differenziarsi nel proprio tempo.
Nel momento in cui mi riferisco a mutamenti culturali, come processo
dinamico sociale che sottende a modalità di esprimere assetti cognitivi e
affettivi conseguenti, mi riallaccio ai concetti che sono alla base delle diverse
teorie sui gruppi. Il rapporto tra l’individuo e il gruppo visti in un “continuum”
dove il particolare intreccio dinamico relazionale, che caratte rizza la società di
una determinata epoca, produce nell’individuo risposte affettive e “Sistemi” di
pensiero ad esso connesse.
La nostra epoca è caratterizzata da cambiamenti sociali, così rapidi e al
contempo radicali, che producono un’accelerazione nelle modificazioni dello
stile di vita, che l’essere umano non ha mai affrontato, prima d’ora, con tale
intensità. Nello stesso nucleo familiare convivono persone che appartengono a
generazioni che si sono formate in epoche contigue, ma connotate da
un’impronta culturale e tecnologica che le separa in modo abissale.
Pochi decenni hanno spazzato via usanze secolari e stravolto le regole dei
rapporti sociali che hanno costituito valori e ideali del tutto desueti per le nuove
generazioni, ma ancora presenti nel tessuto familiare e sociale, in una
contemporaneità che vive una sorta di “Babele” del tempo primariamente e, di
conseguenza, del linguaggio e dei valori.
Questo sfilacciamento di un senso di continuità in cui il conflitto generazionale
favoriva lo sviluppo dei processi di individuazione in termini creativi ed
evolutivi, ha generato la rottura della tensione relazionale tra appartenenza e
individuazione. Una tensione capace di generare una forza motrice in grado di
rendere creativo il contrasto tra spinte conservatrici e spinte al cambiamento.
La scissione tra i due poli non è certamente estranea all’impasse di una società
sempre più polarizzata in divisioni ideologiche e politiche, caratterizzata da
blocchi contrapposti, incapaci di confronto e di dialogo, inetti a collaborare per
il bene comune.
Il dibattito politico, come espressione della complessità dei molteplici aspetti di
cui tener conto per una condivisione più consapevole dei processi decisio nali
necessari per un buon governo, patisce l’involuzione di contrapposizioni dema
gogiche, atte alla ricerca di un facile consenso, basato su lusinghe e false
promesse, di una propaganda finalizzata alla conquista del potere di coman
dare, non di governare.
L’espansione delle varie correnti populiste, strette intorno a chi ne interpreta
frustrazioni e umori con una retorica aggressiva, quando non direttamente
violenta, seduce masse di persone proponendo facili soluzioni basate sul conflit
to, fino anche al rovesciamento delle istituzioni democratiche e l’ostracismo nei
confronti dell’immigrazione e di tutti coloro i quali sono ritenuti difformi
rispetto ai valori più tradizionali e, soprattutto, ai loro interessi.
Questo clima autorizza il leader che perde le elezioni ad aizzare una folla armata
a devastare la sede del Congresso degli Stati Uniti in una caccia all’avversario.
Innumerevoli poi le notizie in merito ad atti di sopraffazione fino alla crudeltà
più feroce, che non si limita ad emarginare, ma è finalizzata all’annientare
l’altro.
Si addestrano nell’anonimato degli odiatori nel web, nell’anticamera della
violenza virtuale dei videogiochi più cruenti, dei film “Splatter”.
Assurgono al ruolo di “Evangelisti” che diffondono i vangeli delle “Fake news”,
epigoni ed esercito del capo carismatico in un’appartenenza che, soli, li rende
immuni alle manipolazioni controllate dai Poteri Occulti.
Il loro è un mondo contro, da rovesciare, da rifondare attraverso la pulizia
etnica, dove la violenza più distruttiva è legittimata dalla buona causa.
I livelli di crudeltà misurano il proprio primato con la risoluzione di qualsiasi
traccia di identificazione con le vittime designate.
Riuniti nelle bande criminali giovanili, attive nei centri urbani e metropo litani,
si accaniscono sui loro perseguitati, compiaciuti nel bruciare un senzatetto che
sta dormendo.
Se queste sono le derive più estreme, ma anche non più derubricabili come
eccezionali, la perdita dei valori fondativi del patto sociale, la chiusura in un
individualismo iper-competitivo alienante, la mancanza degli spazi psichici e
fisici di condivisione, già a partire dalla famiglia, provocano la norma lizzazione
di una patologia nei processi di identificazione e di relazione, creando un
terreno di coltura per la violenza e la crudeltà.
Un senso di appartenenza fanatica e omologata, che non prevede sviluppo ed
emancipazione e, in questo modo, è priva della forza propulsiva che nasce dalla
dialettica tra appartenenza e individuazione.
Non sono certamente queste le premesse per affrontare i temi, complessi e
disattesi che, a livello globale, chiedono risposte chiare e linee guida
programmatiche.
Temi che costituiscono un sottofondo di instabilità, un’area asfittica e purulen
ta che, tra negazionismi e dogmatismi, terrorismo e guerre destabilizzanti,
infettano il clima che respiriamo, generando ansie e angosce, sintomi prevalenti
in questa nostra epoca.
Il crollo delle torri Gemelle, nelle opposte reazioni che ha suscitato, coglie
drammaticamente distanze inconciliabili che, quel tragico inizio del secondo
millennio portava in sé come eredità di un passato irrisolto.
Il mondo occidentale ha vissuto tutto lo sconvolgimento di una tragedia le cui
immagini spettacolari utilizzavano il linguaggio della finzione cinematografica
trasponendolo nella realtà viva e vera. Terrore, fuga, disperazione, angoscia, si
confondevano nell’apocalisse della densa nebbia di polvere, in cui si
intravedevano anime spettrali di un inferno dantesco a New York.
Al contempo, rimbalzavano nei nostri telegiornali le manifestazioni di giubilo di
popolazioni in festa, in una condivisione di felicità per un evento vissuto e
celebrato come vendetta, riscatto, vittoria.
È uno scontro in cui, tanto nel mondo occidentale quanto nel mondo islamico
sono evidenti gli esiti alienanti della perdita del senso fondamentale del
rapporto tra individuo e gruppo.
Quel processo in cui l’identità individuale si costituisce attraverso la
trasmissione e condivisione delle norme sociali, l’interiorizzazione di valori e
del senso comune di appartenenza, come struttura portante su cui si edifica la
libera soggettività.
L’ideale di libertà è fondamentale per come costituisce gli assetti simbolici, la
base inconscia su cui si coniuga il rapporto tra individuale e gruppale,
orientando il corso dell’emancipazione in una dimensione sociale e di bene
comune.
In questo senso, tanto l’Occidente che il mondo islamico patiscono i limiti nei
confronti di una libertà illusoria, senza confini, da una parte e la sua mancanza
dall’altra.
Anche il senso del tempo contrappone questi due mondi.
L’Occidente del secondo millennio è schiacciato in un presente frenetico e
vorticoso, come un tempo a sé, compresso in un “Life is now” scisso dalla
storia, in una società travolta dall’accelerazione di uno sviluppo tecnologico
incorporato acriticamente, senza il tempo di elaborarlo.
Lo smarrimento del senso del corso storico e sociale esalta poi un
individualismo esasperato.
È su queste basi che l’inizio di questo secolo vede l’avvento e il subitaneo
sviluppo esponenziale dei “Social”, dove il privato diventa pubblico e la storia
della propria quotidianità prende il posto della Storia.
Il culto di un’immagine di sé e di un successo contabilizzato dal livello di
visibilità e dal numero di follower raggiunti, assume valore primario e
discriminante.
A sua volta il mondo islamico patisce l’ossessione di un ritorno alle origini della
sua fondazione, uno sguardo rivolto al passato in una continua riproposizione
di un ideale arcaico che comprime il presente in un cortocircuito, senza il senso
di uno sviluppo e di un futuro.
La dimensione di un’appartenenza che obbliga alla riattualizzazione del passato
abortisce ogni processo di emancipazione.
Entrambi i sistemi e la loro contrapposizione, che li colloca agli estremi opposti,
pervengono al medesimo esito di una crisi dei processi di soggettivazione.
Riprendendo il pensiero di Raymond Cahn (1998) il concetto di soggetti
vazione sintetizza lo sviluppo dinamico relazionale che porta alla costituzione di
un Io autonomo. Un processo che dall’indistinto simbiotico da cui tutti
proveniamo, mediante progressive differenziazioni, porta alla nascita e allo
sviluppo della propria soggettività.
Attraverso la relazione primaria, la madre di tutte le relazioni costituenti, il
neonato, introietta il principio attivo della costruzione della propria identità.
Il lungo processo di soggettivazione, partendo da quel corrispettivo psichico del
cordone ombelicale, unico filo di connessione con l’altro, si sviluppa attraverso
la concatenazione di legami che, durante la crescita, nell’incontro con nuovi
interlocutori e nuove relazioni significative, costruisce un reticolo sempre più
complesso e articolato, una trama che è base del processo di soggettivazione
Questa spinta originaria, secondo l’autore, abbraccia tutto l’arco della vita di
una persona, orientandola alla propria realizzazione nel contesto relazionale,
che consente alla costituzione sociale di cui siamo fatti, di coniugare l’Io al noi.
L’individualismo, così come l’omologazione del pensiero, segnano, in tal senso,
un difetto del processo di soggettivazione e, di conseguenza, dei rapporti
intersoggettivi.
È ciò che intende Kaës quando definisce l’intersoggettività come una dinamica
strutturante tra persone, lo spazio psichico del Noi in cui si formano i soggetti
dell’inconscio da cui deriva l’Io. Così come la madre genera il bambino, la
matrice relazionale che lo connette agli altri genera la sua individualità, in una
correlazione di soggettività che comprende elementi di unione e di disgiun
zione.
“Non l’uno senza l’altro e senza l’insieme che li costituisce e li contiene; l’uno
senza l’altro, ma nell’insieme che li unisce”.
Così Kaës sintetizza l’intersoggettività e la sua imprescindibilità per il nostro
essere.
Questo è il fondamento della nostra essenza, già approfondito da Winnicott nei
suoi studi sui meccanismi mentali e i processi psichici che sono alla base della
formazione dell’Io. La relazione madre-bambino, come momento originario, si
articola poi nella complessità della dimensione sociale dell’individuo, in
rapporto allo sviluppo delle appartenenze ai suoi gruppi di riferimento.
Se questi sono i cardini costitutivi della nostra esistenza, la qualità e le
caratteristiche di questo intreccio che ci connette gli uni agli altri, si coniuga
secondo direttrici e dinamiche che variano nei diversi contesti e nelle varie
epoche.
La ricerca consapevole di ciò che introiettiamo mimeticamente rispetto alla
struttura del sistema in cui siamo inseriti ci consente di differenziarci e
definirci: un principio attivo inalienabile nella costruzione di una libera
soggettività.
In “Le alleanze inconsce”, un volume del 2010, Kaës sviluppa la sua ricerca sul
rapporto tra soggettività e gruppalità, iniziata fin dagli anni Settanta, per una
comprensione psicoanalitica che consenta di rendere esplicite le condizioni in
cui l’intersoggettività agisce nella formazione dell’inconscio del soggetto.
Rimando il lettore interessato a quelle pagine.
Qui basti sottolinearne alcuni assunti, come chiave che offre una organizzazione
di pensiero e spunti di riflessione sul nostro tema.
Il soggetto nella relazione primaria e, in seguito, nei gruppi di appartenenza
fuori dalla famiglia, definisce il suo Io nell’identificazione alla specie umana.
È un vero e proprio contratto di affiliazione narcisistica, finalizzata alla conser
vazione della specie e dell’individuo, in una dimensione trans generazionale.
L’evoluzione del senso di appartenenza comprende i processi di individuazione,
indispensabili per la costituzione della propria soggettività. La dinamica tra
queste differenti istanze non può prescindere dal conflitto come funzione
necessaria e strutturante.
L’appartenenza senza individuazione, infatti, produce una dipendenza
annichilente, così come un’individuazione senza il senso di appartenenza
produce isolamento e forme, più o meno gravi di disturbo schizoide di
personalità. Nelle sue derive più estreme, porta poi alla negazione dell’
affiliazione alla specie che ci accomuna, legittimando l’omicidio, fino anche al
genocidio, tema tragicamente di attualità nella guerra in atto in Medio Oriente
e che trova rispondenze anche nell’ipocrisia della cosiddetta “Operazione
speciale” che ha giustificato l’invasione russa in Ucraina, solo per citare quelli
più dibattuti.
Tornando invece alla funzione strutturante e creativa del conflitto, nel rispetto
del contratto narcisistico di affiliazione vi è uno scambio e un reciproco
vantaggio: assicura all’individuo la “Materia prima” che l’apparte nenza gli
consente, con cui edificare la sua vita psichica e il suo Io, contribuendo, a sua
volta, con le proprie risorse, alla continuità e alla conservazione del gruppo.
Un sistema autopoietico, direbbero Maturana e Varela, cioè capace di
mantenere la propria organizzazione attraverso l’interscambio con ciò che lo
alimenta, espellendo tutto ciò che invece lo minaccia. Che si tratti di un sistema
biologico piuttosto che un’organizzazione, quali ad esempio le diverse forme di
aggregazione sociali, come le istituzioni, lo Stato, etc. il sistema autopoietico si
fonda sull’invarianza di un’identità che resta fedele a sé stessa nonostante le
continue trasformazioni e i cambiamenti degli elementi che lo costituiscono.
In occasione del XIV congresso nazionale della Società Psicoanalitica Italiana,
nel 2008, Kaës, nel suo intervento si sofferma sul concetto di contratto
narcisistico teorizzato da Aulagnier. Nell’esplicitarlo come alleanza inconscia
strutturante, si sofferma sulla sua funzione di:
“Assicurare gli investimenti di autoconservazione per ogni soggetto e per
l’insieme; assegna ad ognuno un posto definito che gli viene offerto dal gruppo
e che gli è indicato dall’insieme delle voci che, prima della comparsa di ogni
soggetto, ha tenuto un certo discorso conforme al mito fondatore del gruppo.
Questo discorso contiene gli ideali e i valori; trasmette la cultura e le parole di
certezza dell’insieme. È attraverso questo discorso che ciascun soggetto,
facendolo suo, si collega con l’antenato fondatore. Il contratto narcisistico
fornisce oggetti e processi di identificazione: assicura la trasmissione della vita
psichica fra le generazioni ed iscrizione genealogica del soggetto. Proietta il
bambino nel futuro. Al pari delle altre alleanze inconsce strutturanti, il
contratto narcisistico è un quadro intersoggettivo della soggettività ed è anche
un garante dello spazio metapsichico dove ‘deve subentrare l’Io’”.

Importante nel contratto narcisistico il ruolo di coloro i quali svolgono il ruolo
di garanti affinché il contratto assuma quelle valenze di processo simbolico e
strutturante. I garanti metasociali regolano la vita sociale, i valori culturali,
religiosi e politici di riferimento, contribuendo al riconoscimento dell’autorità
che rappresenta questi beni universali. L’autorità che li raffigura suscita
adesione in quanto in grado di assicurare continuità, stabilità e la regolazione
del legame relazionale che salvaguarda il fondamento narcisistico dei soggetti e
il loro sviluppo. Queste condizioni che regolano i rapporti intersoggettivi
assicurano i principi che organizzano la psiche individuale.
Lo sgretolamento di questi principi, con il tramonto delle grandi ideologie e
delle religioni, ha frammentato le direttrici di riferimento che organizzavano i
processi sociali, generando instabilità e insicurezza. Con il venir meno dei punti
fermi di aggregazione e orientamento collettivo, delle matrici culturali e dei
modelli di identificazione condivisi, assistiamo a un progressivo distacco
dell’individuo dal patto e dai valori costitutivi ed evolutivi delle sue appartenen
ze.
L’isolamento, a partire dallo stesso nucleo familiare e patito poi per la
mancanza di riferimenti credibili e coinvolgenti sul piano del confronto e del
dibattito sociale, ha determinato il chiudersi in soluzioni “Fai da te”, accentuato
dagli anni della pandemia.
I nati nel nuovo secolo si trovano di fronte a un futuro incerto, in un clima che
ha visto negli ultimi decenni la generazione dei figli, per la prima volta, in
decrescita rispetto al tenore di vita dei loro padri. Questa condizione favorisce
un senso di esclusione e di emarginazione e una reattività disorganizzata,
refrattaria a convergere in un dibattito politico di un sistema che ha perso
credibilità e da cui non si sentono rappresentati.
La fatica di essere se stessi
Nel suo libro dal titolo molto evocativo, “La fatica di essere se stessi” il
sociologo francese Alain Ehrenberg afferma che la società contemporanea
segna il tramonto del senso di colpa, con la sua funzione strutturante per la
convivenza civile, sostituito dalla responsabilità di emergere, avere successo.
Oggi esistono infiniti modi per riuscirci. Tutti ne hanno la possibilità; il deside
rio, libero dal conflitto con la morale e con le regole esce dai confini del
contenimento delle proibizioni. La contrapposizione in questo modo si sposta
sull’asse che, da una parte vede le infinite possibilità e, dall’altra ciò che è
impossibile.
L’individuo è, quindi, unico responsabile e artefice del suo successo o del suo
fallimento. È questo che motiva tanti giovani, e non solo, a postare in rete
filmati che li vedono protagonisti di atti di violenza, di crudeltà che si articola in
differenti e molteplici modi, e sopraffazione: non importa il modo in cui
raggiungere la visibilità, l’importante è uscire dalla morte vivente dell’ano
nimato.
Il senso della possibilità svolge una funzione importante nella spinta a
modificare la realtà secondo i nostri desideri.

È proprio tutto quello che potrebbe essere, ma ancora non è, che, infatti, suscita
la spinta a migliorarsi. L’atleta che si allena per raggiungere un nuovo record
lavora impegnandosi nella sua disciplina, conscio delle possibilità e delle
difficoltà di raggiungere questo traguardo.
La sua determinazione si misura costantemente con il senso di realtà.
Nelle condizioni di abuso il limite, non connesso al senso di realtà, è vissuto,
invece, solo come barriera, impedimento, perdendo così la sua funzione
strutturante e propulsiva.
Nell’abuso di alcol, per citare solo una tra le sostanze più diffuse, la mancanza
del senso del limite non consente di raggiungere il piacere di sentirsi appagati.
Si beve fino ad alienarsi perché non basta mai.
Il senso del limite consente di regolarsi, di contenersi, ovvero di acconten tarsi,
non nell’accezione della rinuncia, ma del sapersi appagare.
La cultura del senza limiti è negazione stessa della nascita e della morte, dei
limiti entro cui è circoscritta la nostra vita: è un richiamo alla condizione di
rêverie, ma non come nutrimento del vivere, ma al posto del vivere.
Una condizione legata a doppio filo con il disagio inalienabile di trovarsi di
fronte a questo tutto indeterminato, un tutto che non si è fatto cosa, evento,
oggetto reale con cui interagire e, attraverso il quale potersi a propria volta
definire.
Le fantasie di onnipotenza si rivelano, così, nel non essere altro che un’illusione
in cui ci si rispecchia nel nulla, la permanenza in quell’ambiguità che non evolve
nell’ambivalenza e, attraverso la scelta, si cala nella realtà modificandola.
Nella clinica lo riscontriamo nella correlazione tra narcisismo mortifero e
onnipotenza del pensiero, una condizione che espone il paziente a un continuo
rimbalzo nello stato opposto dell’impotenza, in un circolo vizioso in cui l’una
posizione è al contempo generatrice dell’altra.
Nel momento in cui il tutto potenzialmente possibile si scontra con il proprio
vissuto di inadeguatezza, l’inaccettabilità di questo sentimento porta a
nascondersi nella vergogna, divaricando il modo in cui ci si mostra agli altri,
rispetto al senso intimo di sé. Conseguentemente, l’impossibilità della
condivisione e del confronto rende incommensurabile la percezione negativa di
sé e superficiali i rapporti, in cui l’altro è percepito più come minaccia, per la
paura di essere smascherato, che come risorsa.
La presenza di questo fantasma porta al vissuto di assenza dell’oggetto, che
annichilisce ogni possibilità di scambio, di identificazione, di empatia, di
differenziazione, di scelta, di amicizia, di amore. Se manca l’altro, con esso
viene a mancare la materia prima con cui si edifica il soggetto: una condizione
paralizzante che annichilisce la motivazione del vivere, rinchiudendola nel
mondo asfittico dell’angoscia e della depressione.
Catastrofismo e negazionismo
Esposti a calamità ambientali sempre più frequenti che minano quel pur
relativo senso di sicurezza, indispensabile per il nostro equilibrio, consumia mo
la ricerca di soluzioni possibili nel braccio di ferro tra catastrofismo e negazionismo.

I cambiamenti climatici denunciano la sofferenza di un ambiente
sottoposto a uno sfruttamento delle risorse che, invece, implica la revisione di
sistemi economici con scelte sempre più ineludibili e una classe politica non
asservita al potere dei tanti interessi in gioco.
In realtà le scelte politiche hanno un peso determinante in un’economia
direzionata ad ampliare, anziché ridurre, il divario tra ricchezza e povertà.
In tal modo le risorse sono in mano ai pochi, sempre più ricchi a scapito di una
ridistribuzione più attenta agli equilibri sociali e ambientali per una crescita
della qualità di vita per tutti. Le conseguenze di questo assetto sono molteplici e
oggetto di studi e di analisi da parte di istituti di ricerca competenti in materia.
Il mio vertice di osservazione, come psicoanalista, mi porta a riflettere su
quanto posso notare attraverso i vissuti emergenti nelle sedute di analisi.
Sempre più spesso le motivazioni che ritrovo nelle richieste di psicoterapia
riflettono stati di ansia, attacchi di panico improvvisi e violenti, fasi depressive
di diversa intensità e durata, vissuti di insicurezza e frustrazione che producono
risposte maniacali onnipotenti, alternate a senso di impotenza e rassegnazione.
Fallimenti relazionali e insuccessi nell’ambito dello studio o del lavoro, in un
clima ambientale e sociale di grandi insicurezze, appaiono come sfondo di
queste condizioni di malessere che accomuna trasversalmente persone
appartenenti a fasce di età diverse, da giovani adolescenti a adulti negli anni
della loro maturità.
Altrettanto frequentemente, nel corso del trattamento si palesano forme di
dipendenza invasive e invalidanti: dall’abuso di alcool e/o stupefacenti, di tabac
co, di farmaci, alle dipendenze da gioco d’azzardo, da shopping compulsivo, dai
social e dai dispositivi elettronici. Anche i disturbi dell’ alimentazione e del
sonno sono in particolare ascesa rispetto ad anni fa.
Ora, al di là della specificità e originalità di ciascuno, non ci possiamo esimere
dal riflettere sulle modalità in cui si esprimono i disagi e le patologie nella
nostra epoca.
L’isteria, così presente nella società sessuofobica di Freud, non ha più gli stessi
motivi di esistere oggi, in cui la sessualità è tutt’altro che repressa e ci pone di
fronte a questioni del tutto differenti da quel tempo.
Ogni epoca, dicevamo ha i propri riferimenti culturali, tecnologici, i propri
valori, stili e modelli di vita che caratterizzano il succedersi generazionale, e
anche le proprie modalità in cui si manifestano patologie e disagi.
Il benessere è un delicato equilibrio tra corpo, mente e ambiente.
Gli anni di pandemia hanno scoperchiato il vaso di pandora delle nostre
fragilità, investendo i narcisismi palestrati del “No-limits”, mettendoci di fronte
alla nostra vulnerabilità e alla realtà che vincola i nostri destini a quelli
dell’ambiente in cui viviamo: in un ambiente infetto ci infettiamo e siamo, a
nostra volta, veicolo di infezione.
Individuare le scorie, che pur considerando gli innegabili progressi, mettono in
luce gli aspetti negativi dell’evoluzione umana, ci consente di occuparcene in
modo più maturo e consapevole.

Le nuove tecnologie
Le nuove tecnologie ci consentono di avere un accesso alle informazioni e una
possibilità di condivisione dalle potenzialità straordinarie.
Possiamo connetterci e confrontarci con persone e culture diverse, condividen
do esperienze e soluzioni innovative.
Le banche dati, per esempio in ambito medico, consentono di formulare
protocolli di cura che sono la sintesi di programmi di studio e ricerca globali più
avanzate. La robotica chirurgica offre livelli operativi, anche a distanza, ieri
impensabili e oggi sempre più in espansione.
A livello industriale la robotica è in grado di assorbire il carico di lavori
ripetitivi e alienanti.
L’espansione esponenziale degli smartphone ci permette di disporre di una
multifunzionalità che, racchiusa nel palmo della mano, esce dai confini in cui
era stata progettata la telefonia cellulare e ne fa un oggetto dalle proprietà
sconfinate in continuo sviluppo.
Il bastone con cui la scimmia amplia la portata del suo braccio per raggiungere
la banana comporta la creazione di nuovi schemi mentali, nuovi circuiti
neuronali che, di fronte a un problema, sono in grado di trovare soluzioni e di
tramandarle alle generazioni successive.
Se lo spazio corporeo occupa un’area fisica ben definita, lo spazio peripersonale,
quello che riusciamo a raggiungere estendendo le nostre braccia, varia in virtù
di uno strumento che può ampliarne i confini, come il bastone per la scimmia.
In tal modo la comunicazione tra gli stimoli esterni prossimi ai i nostri apparati
sensoriali, all’interno dello spazio peripersonale, predispongono a possibilità di
azione retroagendo sullo sviluppo di determinate aree cerebrali. I meccanismi
cognitivi coinvolti attraverso le sensazioni somatiche sollecitate dall’ambiente
sensibilizzano, in questo modo, un’area che circonda lo spazio corporeo,
esterna, ma attinente ad esso, creando uno spazio intermedio di separazione,
che, al contempo è interfaccia di collegamento con ciò che ci sta intorno.
È un’area di rispetto che, ad esempio, regola la distanza con cui ci rappor tiamo
con gli altri. Il superamento unilaterale di questo spazio è immediata mente
percepito come intento aggressivo e crea un allarme che attiva le difese.
Viceversa, l’ampliamento dei limiti corporei, ampliandone il raggio di azione,
espande e rinforza il senso di possibilità progettuale.
Si calcola in poco meno di 7 miliardi il numero dei dispositivi di telefonia
mobile nel mondo. Un miliardo di persone possiede uno smart phone.
La tecnologia mette nelle mani di tutti uno strumento in grado di abbattere i
confini del nostro spazio peripersonale, espandendolo oltre ogni limite.
Dalla mia stanza sono in grado di raggiungere istantaneamente, l’andamento di
una ricerca in corso oltreoceano; con “Street Wiew”, posso virtualmente
osservare le vetrine del mio fornitore di fiducia a Sidney, per poi, dallo stesso
smart phone, ordinare un prodotto, che pago collegandomi con la mia banca,
per passeggiare, infine, sempre virtualmente, fino al teatro dell’Opera.
Ma, a fronte di un’innovazione straordinaria, che mi permette di rendere a
portata di mano i luoghi più remoti, non posso ignorare i passeggeri con cui
condivido il viaggio in treno verso Roma. Ciascuno rapito dal proprio schermo;
vicini senza sguardi di ritorno, incuranti delle Crete senesi che stiamo
attraversando, immersi e isolati nelle immagini e nei suoni di mondi diversi,
grandi quanto uno schermo che fa da scudo rispetto a chi ci sta accanto.
La sera, nel ristorante, bambini sedati con il tablet e una giovane coppia, tanto
silenziosa quanto veloce nel digitare, ciascuno nella propria chat.
Strana proprietà di questi strumenti: capaci di rendere così vicina la lontananza
e così lontana la vicinanza.
Troppo intensi gli stimoli trasmessi: tra le mani si racchiude un mondo senza
limiti, dove il tempo di ciò che vi accade, fa collassare quello della condivisione,
dello scambio, il tempo comune dove ci sono gli altri; travolto e scolorito da
ritmi e tempi di un immaginario infinito richiamato da un semplice clic.
Sono gli stimoli più intensi che catturano la nostra attenzione: è costitu zionale
della nostra fisiologia. La densità e concentrazione con cui essi si condensano
nel piccolo schermo sono iper-eccitanti per i processi neuronali deputati ad
assolverli, mentre la realtà sbiadisce, come pure le interazioni del nostro
sistema cervello-mente con essa.
In questo modo le nostre stesse strutture cerebrali si modificano.
Quando l’esposizione ai vari dispositivi intossica i neuroni, fa sì che essi si
attivino in queste circostanze, depotenziandosi al cospetto della realtà: un
fenomeno particolarmente grave in età precoce, quando le strutture cerebrali
sono in formazione. Ma anche gli adulti, in regime di sovraesposizione, non ne
sono immuni e sviluppano una vera e propria dipendenza, non dissimile
dall’abuso di sostanze tossiche. L’uso eccessivo modifica le nostre abitudini,
consolidando quei pattern neuronali che si rinforzano per il fatto che li usiamo
più degli altri. Schemi di comportamenti velocissimi e già pronti per l’uso,
idonei all’ambiente che li ha formati, in un’interazione stimolo-risposta che,
come nei videogiochi, premia l’immediatezza che annulla il tempo del pensiero:
esperti surfisti della sensorialità e naufraghi nelle emozioni.
È il regno delle risposte automatiche, del rapporto diretto tra neurone e
motoneurone, dell’arco riflesso che non ha bisogno di riflettere e bypassa la
coscienza che fa perdere tempo.
Così, assuefatti alla play station, presi dall’interazione digitale, viviamo l’altro
come un’interruzione.
Se questo è l’assetto in cui cadono i nostri giovani più fragili, più esposti al
richiamo dei video giochi, dei social e del web, il principio attivo di questa
dipendenza è trasversale a tutte le età.
Immersi nella rete virtuale che ci circonda, in una duplicazione esponenziale
del mondo fisico che offre accessi infiniti e istantanei alle informazioni,
forziamo i limiti della nostra fisiologia costretta a tararsi sulla velocità di una
Silicon Valley che detta i tempi, le regole e gli strumenti stessi del nostro lavoro
e del nostro svago. Ne subiamo il fascino per tutte le possibilità che ci offrono,
inconsapevoli dell’erosione vitale che comportano. Appagano le ambizioni
narcisistiche di un Ego ipertrofico e occultano le necessità imprescindibili di un
Sé sempre più isolato e sconnesso dalle relazioni autentiche.
Paghiamo il prezzo di un depotenziamento dei fondamentali processi di
sintonizzazione affettiva, della minor capacità di identificazione e di empatia e
di quei processi di rispecchiamento che costituiscono la via del sentirci compre
si e riconosciuti e in tal modo connetterci e sentirci connessi gli uni agli altri.
Intanto i tempi di lavoro sconfinano invadendo quelli personali, mono
polizzando i pensieri, le fantasie, i sogni, nel tentativo di rispondere al senso di
inadeguatezza nel sentirsi sempre in arretrato rispetto alla febbre del dover
fare. Inevitabili, dunque, gli stati d’ansia, la dimensione emozionale dell’Io che
deve fare, deve decidere, confrontarsi con i concetti e col giudizio, come ci
insegna Jung. In questa condizione la portata del vivere è stretta in una
condizione asfittica, in un qui e ora dove vige la legge della causa e dell’effetto,
del pensiero computazionale, del resoconto del proprio operare, del proprio
essere adeguato e performante. L’ipotrofia del Sé intacca le energie insite in ciò
che ci motiva al vivere nella dimensione emozionale del Sé, che è la pace del
sentirsi parte di un infinito, capaci di uno sguardo lungimirante che ci connette
alla storia, all’ambiente, agli altri, che connette realtà e desiderio.
Penso che l’innovazione e gli sviluppi della tecnologia siano, di per sé, portatori
di progresso e anche frutto e al contempo stimolo per una crescita dei nostri
sistemi cognitivi. Un’evoluzione resa possibile dalla capacità dei nostri circuiti
cerebrali di riciclare funzioni apprese e consolidate adattandole a svolgere
compiti molto diversi. La plasticità del nostro cervello consente, in tal modo di
utilizzare pattern neuronali già presenti per riutilizzarli in nuove situazioni, con
nuovi strumenti e nuovi sistemi organizzativi. È questa disposizione fisiologica
che consente di svolgere compiti sempre più complessi, in un processo che fa
parte di un continuum evolutivo che ha portato la massa cerebrale, dalla
preistoria ad oggi, a raddoppiare il suo peso.
Gli sviluppi e le innovazioni della tecnologia andrebbero pertanto considerati
come opportunità e realizzazioni della spinta a “Seguir virtute e canoscenza” e
non come un pericolo.
Casomai l’aspetto critico sta nella “Virtute”.
È una caratteristica solo dell’uomo, rispetto a tutte le altre specie, quella di
disporre di un duplice sistema. Le funzioni dell’Io, i suoi sistemi percettivi, le
cognizioni delle leggi del mondo della fisica, del rapporto causa-effetto etc., gli
consentono di muoversi nello spazio e nel tempo e di gestirsi tenendo conto del
mondo dell’effettualità.
L’area del Sé, indefinibile e caotica, ribolle di un’energia creativa che connette
realtà e desiderio, presenza e assenza, finito e infinito; tutto ciò che costituisce
quel “tendere verso” che è il vero delicatissimo cuore pulsante nella nostra
natura, metronomo dei nostri battiti vitali, bilanciere di sensibilità, umori,
chiusure e aperture che segnano il nostro modo di essere e di partecipare al
grande gioco della vita.
Il Sé si muove oltre la realtà del mondo fisico, nell’ambito delle infinite
possibilità che lo proiettano là dove i nostri sensi non possono arrivare,
generando spinte trasformative e motivazioni ad avvicinare il mondo a come lo
vorremmo.
Fondamentale per il nostro benessere è quindi l’integrazione tra questi due
sistemi e il preconscio, area intermedia di connessione e di scambio, in un
equilibrio in cui l’infinito delle possibilità e la realtà non si infrangono nella
utopia né nella rassegnazione.
Se non avessimo due gambe dovremmo saltellare su una sola: l’Io inconsa
pevole inciampa nella vita, alla ricerca della perfezione e, in questo modo,
genera la sua ansia e la sua infelicità.
Jung ci insegna che: “La vita per compiersi non ha bisogno della perfezione,
ma della completezza”.
È attraverso la tensione creativa tra il Sé e l’Io che si forgia l’individuazione,
l’originalità e l’unicità della persona nel suo contesto relazionale e nei valori
della sua appartenenza.
La conoscenza e il modo in cui possiamo fruire dei suoi sviluppi non possono
prescindere da questo equilibrio, da un Io consapevole, in contatto con i
significati profondi del suo sentire, capace di gestire i propri impulsi, di
tradurre le sue emozioni in sentimenti, in uno spazio psichico in grado di
riflettere, di darsi il tempo di pensare per scegliere poi come agire.
Il pensiero è di per sé una non-azione, uno spazio-tempo di riflessione, di
confronto di possibilità, di supposizioni che immaginano scenari differenti, di
emersione di quel “sottosuolo” in cui affondano le nostre radici e le nostre
motivazioni. Con il pensiero pensiamo a quello che non c’è, ma che ci
piacerebbe ci fosse. È in questo modo che modifichiamo la realtà, quando il
pensiero si fa progetto e si realizza una fantasia. Così il desiderio di Icaro ci
porta a progettare l’aeroplano e a volare.
Con le capacità della mente computazionale l’ingegno umano ha sviluppato
tecnologie sempre più complesse e avanzate, ma il pensiero computazionale,
sconnesso dai delicati equilibri che regolano le motivazioni del vivere più
autentiche e mature, sconfina in un’anaffettività robotica, che perde il senso
etico di una visione capace di coniugare l’individuo alla sua specie, alla sua
umanità.
Boncinelli: Mi ritorno in mente. Il corpo, le emozioni, la coscienza
“[…] La percezione è sempre finalizzata all’azione, ma l’azione non ci può
essere senza una motivazione o un’aspettativa positiva. La percezione e la
mente cognitiva ci suggeriscono “come” compiere un’azione; l’emotività ci dà
una ragione per compierla e ci spinge a farlo. La cognizione e la ragione si
comportano come gli argini di un fiume in piena, ma l’affettività è la gravità
della sua massa d’acqua. Noi siamo prima di tutto il fiume e secondariamente
gli argini, anche se la nostra evoluzione culturale ha teso a richiamare la nostra
attenzione più su questi ultimi, non fosse altro perché le loro vicende si
prestano meglio a essere raccontate e tramandate. Noi esseri umani abbiamo
sviluppato molto il nostro lato cognitivo, arrivando a coltivare la ragione se non
una razionalità spinta, ed è giusto che prendiamo tutto ciò molto sul serio.
Occorre però ricordare che la ragione ci aiuta a vivere, ma non ci motiva a farlo.
Nessuno di noi vive per motivi razionali bensì perché siamo […] “portati” a
vivere […] e per vivere bisogna voler vivere […] e questo la mente
computazionale e la ragione non lo possono garantire. Vale anche la pena di
sottolineare che abbiamo individuato diverse aree cerebrali impegnate nella
gestione dell’affettività, ma nessuna devoluta alla razionalità: è questo in
sostanza il «corpo estraneo» – e nuovo – presente in noi, non le emozioni”.

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Note
1. Riferimento al film Ritorno al futuro, di Robert Zemeckis del 1985.
2. The Truman Show è un film di Peter Weir del 1988.

Fulvio Tagliagambe è Psicoanalista associato della Società Psicoanalitica
Italiana (SPI), Membro dell’International Psychoanalytical Association (IPA).
Socio fondatore e Presidente del Cart Onlus, centro di psicoterapia e cura delle
dipendenze Psicoterapeuta e già vicepresidente dell’Associazione di Psicote
rapia di Gruppo (APG). Docente della scuola di specializzazione della Coirag. E’
stato redattore di “Polaris, Psicoanalisi e mondo contemporaneo”. E’ stato
redattore della rivista “gli argonauti” Psicoanalisi e Società
Email: fulta@me.com